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Don Giovanni as “unlimited myth” at La Scala

In 2011 Robert Carsen's Don Giovanni inaugurated the La Scala season amid disputes about its outrageous modernity. The same production now returns at the Milanese theatre and it looks hyper-traditional in comparison to what has been seen in the stagings by Calixto Bieito, Martin Kušej, Claus Guth, Dmitri Tcherniakov or Krzysztof Warlikowski, to name just a few.

On the first notes of the overture, and with lights still lit in the auditorium, Don Giovanni comes out of a stage-box and breaks onto the scene by pulling down the curtain, revealing a huge mirror that reflects the hall and its audience. Here Don Giovanni is the theatre, where he lives and acts – the parterre, the stage-box, the Royal box too, as we will see – and Leporello is a stagehand, wearing the same suit as the technicians who create the fictional world we are going to witness. The action we see on stage is often meta-theatre, with Don Giovanni a spectator from his seat.

Michael Levine's scenic elements consist of red curtains on sliding screens. Donna Elvira's repeated “Ah chi mi dice mai” are actually her exits, followed by her waitress with suitcases, from doors cut in different screens. The scenery will transform itself into multiple visions of the proscenium in a bold mise en abyme, an infinite perspective that seems to be referring to Don Giovanni's "unlimited myth" as defined by Carsen in his directorial notes.

The setting in modern dresses gives way to vintage costumes in red velvet, the same as the stage curtain, for the masking scene at Don Giovanni's home, the most theatrical moment of this gorgeous mise en scène, when Carsen finally gives meaning to that often incomprehensible "Viva la libertà": for a brief moment on stage all hell cuts loose before the turbulent finale of Act 1, one of the finest endings of this opera never seen on stage, when Don Giovanni flees his assailants letting the curtain drop on their swords.

Another coup de théâtre is the Commendatore's appearance, an iconic moment often badly staged: here we see his distorted image in the mirror reflecting the singer standing in the distant Royal box. And then the finale, when the characters are all dressed up for the opening of the opera and have the programme of the evening in their hands – the nobles, at least, as Masetto and Zerlina are sort of social climbers in white and Donna Elvira is always wearing her black satin négligé. If so far Carsen's dramaturgy has followed the booklet more than faithfully, now there is a surprise: his Don Giovanni cannot burn in a hell in which he does not believe: he is struck by the Commendatore's sword, but his antagonists are the ones who end up underground amid red fumes, as he reappears at the last minute, with a cigarette in his hand, mockingly and more alive than ever. We are prisoners of our own mortality, while Don Giovanni is a myth that tends to everlasting life and his first words in the opera, "Chi son io tu non saprai", were addressed to Donna Anna, but to us as well, an audience of the 21st century, who will never know who really Don Giovanni is, this "unknown" free thinker, light years away from our daily lives.

Thomas Hampson recorded his Don Giovanni with Harnoncourt in 1991 and again in 2006 with Harding, when his voice was already a bit worn out. Now the situation hasn't improved: his timbre is dry, his breath is short and his expression is more spoken that sung. Despite these vocal means, however, he was able to define the character thanks to his great stage presence. As Leporello there was his son-in-law, Luca Pisaroni, a debutant at La Scala, a first class singer whose recitatives and the catalogue aria revealed all the possible shades of the text. 

Donna Anna is a more sorrowful than vengeful character here and Hanna Elisabeth Müller easily solved the agility required by the role. At her side she had a less anemic than usual Don Ottavio in Bernard Richter. Anett Fritsch was a Donna Elvira of great temperament, while Giulia Semenzato and Mattia Olivieri were two very effective performers as the peasant couple. Tomasz Konieczny had impressive volume but poor diction as the Commendatore.

Paavo Järvi conducted the opera with unostentatious, if not solemn, tempi and was respectful of the singers on stage, though succeeded in highlighting the orchestral preciousness of the score.

 

Il mito senza limiti di Don Giovanni a La Scala

Nel 2011 il Don Giovanni di Robert Carsen aveva inaugurato la stagione del teatro milanese tra contestazioni e critiche di eccessiva modernità. Ora la medesima rappresentazione ritorna in scena nello stesso teatro e sembra una messa in scena ipertradizionale in confronto a quanto si è poi visto nelle letture del capolavoro mozartiano di Calixto Bieito, Martin Kušej, Claus Guth, Dmitrij Černjakov o Krzysztof Warlikowski, per fare solo qualche nome.

Sulle prime note dell'ouverture, e con le luci ancora accese in platea, Don Giovanni esce da un palco di proscenio e irrompe sulla scena tirando giù il sipario che scopre un enorme specchio riflettente la sala del Piermarini con il suo pubblico. Don Giovanni è il teatro stesso, in cui abita e di cui prende il controllo – il corridoio di platea, il palco di proscenio appunto, ma anche il palco reale, come vedremo – e Leporello è un lavoratore del teatro, ha la stessa tuta dei servi di scena che aiutano a creare il mondo fittizio cui stiamo assistendo. L’azione che vediamo in scena è spesso teatro nel teatro, in cui Don Giovanni, seduto in poltrona, diventa spettatore lui stesso della vicenda.

Gli elementi scenografici di Michael Levine sono costituiti da sipari rossi su schermi scorrevoli: le ripetute sortite di «Ah chi mi dice mai» sono effettivamente “uscite” da successive porte di scenari di Donna Elvira seguita dalla cameriera con le valigie. Ci saranno poi visioni multiple del proscenio in un'audace mise en abyme, una prospettiva infinita che sembra voler fare riferimento al “mito senza limiti”, come definisce Carsen quello di Don Giovanni nelle sue note di regia.

L’ambientazione in abiti moderni cede il passo a costumi d’epoca in un velluto rosso, uguale a quello del sipario, per la scena del ballo in maschera a casa di Don Giovanni, il momento più teatrale del bellissimo allestimento, momento in cui Carsen dà significato a quel «Viva la libertà» spesso incomprensibile: per un breve attimo tutti quanti si lasciano andare prima del turbinoso finale del primo atto, uno dei più bei finali di quest'opera mai visti in scena, con Don Giovanni che fugge alle spade sguainate dei suoi assalitori facendo calare il sipario che scendendo le fa cadere loro di mano.

Altro coup de théâtre è l’apparizione del Commendatore, momento topico troppe volte disatteso o male inscenato: qui c’è la sua immagine distorta sullo specchio che riflette il cantante in piedi nel lontano palco reale. E infine il finale, in cui i protagonisti sono vestiti come per una prima e hanno in mano il programma della serata – i nobili per lo meno, ché Masetto e Zerlina sono un po’ gli impacciati parvenu in bianco e Donna Elvira non smette il suo négligé di satin nero. Se fino a questo momento la drammaturgia di Carsen ha seguito più che fedelmente il libretto, ora c’è la sorpresa: il suo Don Giovanni non può finire dannato all’inferno in cui non crede: viene sì infilzato dalla spada vendicatrice del Commendatore, ma sono piuttosto i suoi antagonisti che finiscono sottoterra tra fumi rossastri quando lui ricompare all’ultimo minuto, beffardo e con la sigaretta in mano, più vivo che mai: noi siamo prigionieri della nostra mortalità, mentre Don Giovanni è un mito che tende all'immortalità. Le sue prime parole nell'opera erano state «Chi son io tu non saprai», rivolte sì a Donna Anna, ma anche a noi, pubblico del XXI secolo che non saprà mai chi sia veramente questo “sconosciuto” libero pensatore lontano anni luce dalle nostre quotidianità.

Thomas Hampson aveva registrato il suo Don Giovanni con Harnoncourt nel 1991 e ancora con Harding nel 2006. Già allora la voce era affaticata, ora la situazione non è migliorata: il timbro è sfibrato, i fiati corti e il baritono americano si rifugia spesso nel parlato. Nonostante questi mezzi vocali riesce comunque a definire il personaggio grazie a una grande presenza scenica. Come Leporello c'è il genero, Luca Pisaroni, debuttante alla Scala, cantante eccelso dal timbro prezioso e che nei recitativi e nell'aria del catalogo mette in luce tutte le possibili sfumature del testo.

Donna Anna qui è più addolorata che vendicativa, una Hanna Elisabeth Müller di bella voce che risolve con facilità le agilità richieste dalla sua parte. Al suo fianco ha un Don Ottavio meno esangue del solito nell'ottimo Bernard Richter. Donna Elvira di gran temperamento è Anett Fritsch mentre la vivace coppia di popolani trova in Giulia Semenzato e Mattia Olivieri due interpreti efficaci. E infine Tomasz Konieczny, un Commendatore dal volume sonoro impressionante ma dalla dizione inammissibile.

Paavo Järvi stacca tempi non trascinanti ma rispettosi dei cantanti e dà una lettura che pur nella solennità non rinuncia a mettere in evidenza le preziosità orchestrali della partitura.

https://bachtrack.com/review-don-giovanni-carsen-hampson-pisaroni-jarvi-la-scala-milan-may-2017

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