Roma - Accademia Nazionale di Santa Cecilia: Concerto diretto da Paavo Järvi con Augustin Hadelich

AUTORI VARI

23.02.24

Marco Peracchio

Operaclick

La locandina

ViolinoAugustin Hadelich
DirettorePaavo Järvi
  
Orchestra Nazionale dell'Accademia di Santa Cecilia
  
  
Programma
  
Claude DebussyPrelude à l’apres-midi d’un faune
Jean SibeliusConcerto per violino
Sergej Sergeevič Prokof'evSinfonia n.5

 

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Paavo Järvi torna a Santa Cecilia dopo più di un lustro, riconfermando la sua intesa felicissima con l’Orchestra in un programma di tre capolavori.

Prelude à l’apres-midi d’un faune è eseguito per metterne in luce le strutture portanti, che Debussy ha dissimulato quasi completamente: siamo in un primo pomeriggio nordico, di luce viva ma fredda, che induce alla contemplazione anziché a un placido sonnecchiare del fauno dionisiaco. Superlativo il solo di Adriana Ferreira al flauto, di splendente immobilità nel vibrato e nel colore.

Il trentanovenne italo-tedesco Augustin Hadelich ci regala il debutto solistico più bello degli ultimi decenni nel Concerto per violino di Sibelius. Una tecnica strabiliante e per nulla esibita - che fa sovente strabuzzare gli occhi dei violinisti dell’orchestra in un misto di incredula sorpresa e ammirazione - a servizio di un’espressività rara negli artisti non russi dal dopoguerra, pressoché unica in un giovane. Ha giocato un ruolo l’incidente nella fattoria paterna di Cecina, che da adolescente gli ha sfigurato il volto impedendogli di suonare per un anno. Il mirabile Guarineri del Gesù ‘Leduc, ex Szeryng’ viene squadernato in tutta la sua magia timbrica senza che gli estremi della gamma suonino mai artefatti o di cattivo gusto, assente ogni sforzo visibile. Tanta bellezza è a servizio dell’anima del musicista, che serve gli stati d’animo composti da Sibelius con umanità profonda e ritrosia da persona umile. Il suo fraseggiare è spedito e meravigliosamente antiretorico, con brevi soste di contemplazione che ne lasciano intuire la sensibilità prodigiosa. Una prestazione indimenticabile dall’inizio alla fine: basti riportare che durante il terzo movimento tutta la fila dei violini primi ondeggiava la testa e sorrideva beata, al termine anche gli orchestrali solitamente più compassati battevano i piedi e urlavano ‘bravo’ al punto da non voler più che smettesse coi bis. Sarebbe superfluo notare che proiezione del suono fin nei pianissimo, precisione, libertà, fusione con l’orchestra. intonazione e senso del ritmo sono superlativi. Järvi gli stende attorno un tappeto di suono vellutato, a tratti voluttuoso eppure mai in primo piano.

Nella seconda parte un brano, la Quinta sinfonia di Prokofiev, che nel 2019 costituì un caposaldo nella storia del Parco della Musica: Yuri Temirkanov apparve per l’ultima volta con la sua Filarmonica di San Pietroburgo, in un’esecuzione che parve da subito un testamento della sua vita in musica e rappresentò per molti incluso chi scrive l’esecuzione sinfonica per antonomasia. Un esito così assoluto e recente avrebbe ingrigito qualsiasi ripresa del brano men che splendida. Järvi non l’ha fatta rimpiangere, benché la sua concezione sia agli antipodi rispetto a quella del compianto Maestro russo: se quest’ultimo la proponeva come un organismo industriale di granito e di acciaio, ineluttabile eppure che non impedisce la realizzazione di uno spirito sensibile e colto, per il direttore estone diventa una parodia beffarda delle componenti sardonica e iperburocratica di un regime, quasi una danza di pernacchie giovanili alle mummie che lo incarnano. Il tutto si traduce in resa orchestrale: se i pietroburghesi issavano pareti sonore marezzate e squarci solistici come ululati di disperazione, i ceciliani paiono segugi snelli prima in ricerca (i movimenti dispari) quindi all’inseguimento della preda (in quelli pari). In comune le due formazioni hanno suonato al meglio delle loro possibilità, in un brano niente affatto facile per l’intersecarsi di temi articolati. Splendida l’Orchestra di Santa Cecilia per compattezza rigorosa delle file di archi, autorevoli nei soli dei fiati, sicuri nelle percussioni. Come già nella prima parte del concerto, l’esecuzione è stata talmente coerente da rendere difficile citare pagine più riuscite di altre.

Al termine un boato del pubblico ha tributato un successo meritato ai musicisti, con gli orchestrali plasticamente compiaciuti di se stessi e grati a un grande direttore. Loro e noi speriamo di accoglierlo a Roma con maggior assiduità.

 

La recensione si riferisce al concerto del 23 febbraio 2024.

Marco Peracchio

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